Domani è domenica, post scriptum

È scomparsa la sua tomba. 40 anni dopo, la concessione era scaduta per la seconda volta. Dopo 20 anni l’aveva rinnovata mio padre. Pagava un orticoltore che ci metteva i fiori. Dopo la sua morte non l’ho più pagato, le piante hanno lasciato il posto alla ghiaia. È triste una tomba dove non va nessuno. Le mie visite erano così rare. Mi sentivo in colpa. Sentimento di averla abbandonata lì, mia madre, nel cimitero che si estende fino al filo spinato che costeggia l’aero club e la pista d’atterraggio degli elicotteri dell’ospedale universitario.

Avrei dovuto decidere nel 2014 se rinnovare la concessione. O meno. Il «servizio di manutenzione degli edifici» non mi ha contattata. Per finire ho telefonato. Temevo che facessero sparire la tomba senza avvertirmi. Mi hanno risposto che naturalmente questo era inconcepibile. Semplicemente c’era stato del ritardo. Molto ritardo. La concessione poteva prolungarsi fino a dicembre. Senza costi aggiuntivi. Mi avrebbero scritto. In dicembre, non avevo ancora ricevuto niente. Volevo telefonare. Rimandavo. Poi non ci pensavo più. Improvvisamente ripensavo alla tomba. Con un vago sentimento di angoscia. Era sempre lì? A giugno, mi sono decisa. A richiamare.

La tomba era sempre lì. C’era ancora del ritardo. Quindi nessuna urgenza. Sì ma. Per me era giunta l’ora. Non volevo più continuare a pensare alla tomba di mia madre per mesi, magari addirittura per anni. Volevo liberarmi. Ho espresso il desiderio di assistere alla rimozione del monumento, cioè alla sua distruzione dato che no, non desideravo conservare la stele. Un ruspa raccatta le macerie, le ammucchia in un angolo del cimitero prima che il tutto venga sgomberato. Non si scava alla ricerca di resti che non esistono più. Il corpo di mia madre, la sua bara erano tornati a essere particelle. Particelle restituite all’universo a pochi chilometri dal Cern dove si studia la fisica delle particelle. Dove aveva lavorato mio padre. Le cui ceneri riposano nel colombario poco distante da quella che ormai è stata la tomba di mia madre.

Aveva sorpreso il mio desiderio. Non comune. A undici anni, non avevo potuto fare altro che subire. Era mio padre a decidere tutto. Senza consultarmi. Aveva fatto scrivere sul monumento il nome di mia madre con quell’errore di ortografia, volontario o meno, chissà. Silvia invece di Sylvia. La versione italiana perché lui parlava italiano, ci avrà pensato, o gli è venuta così? Aveva anche omesso il suo cognome da nubile. Un nome, un cognome, due date. Minimalista. Niente «diletta e compianta consorte», niente «madre amata». Per forza, si era suicidata. Per quanto riguarda coinvolgere la figlia… Questo non gli veniva in mente.

Questa volta ero io a decidere. A prendere le cose in mano. Non avevo potuto dire la mia sull’erezione del monumento. Volevo dirla sulla sua rimozione. E volevo essere presente. Fino all’ultimo. Per voltare pagina.

Bisognava scegliere una data per decidere che era finita. Che la tomba sarebbe scomparsa. Come si fa a decidere quando niente costringe a scegliere un giorno preciso? Come definire il tempo della morte in quello della vita? Come decidere, dopo aver dovuto accettare che la morte non ha fine, di mettere fine alla tomba? Mi ha aiutata un film. Und morgen mittag bin ich tot (« Domani a mezzogiorno sarò morta »). Lea è malata di mucoviscidosi. Per lei non c’è più speranza. L’unica prospettiva è un ineluttabile degrado, l’aria che si rarefà fino al soffocamento finale. Ha 22 anni. È tedesca. Va a Zurigo. Dove i condannati della vita possono scegliere la propria morte. In Svizzera, si ha il diritto di decidere che è finita. Scegliere la propria fine dovrebbe essere un diritto umano.

Lea andrà da Exit, l’associazione svizzera per l’eutanasia. Il giorno del suo 23esimo compleanno, che per lei sarà l’ultimo. Se non ci vado il giorno del mio compleanno non ci vado più, dice.

Non ero nella sua situazione. Non mi apprestavo a mettere fine ai miei giorni. Ma a sopprimere l’ultima dimora di colei che mi aveva dato la vita. Grazie a Lea, avevo trovato una data. Il 13 luglio. Il giorno dell’anniversario. Il giorno della morte di mia madre.

Quel giorno si è rivelato ancora più simbolico del semplice anniversario della sua morte.

Perché siamo nel 2015. Mia madre è morta esattamente quarantun anni fa. Ne aveva 41 quando ha deciso di aprire quella finestra per precipitarsi nel vuoto. Io undici. Oggi ne ho cinquantadue, ossia undici anni in più di quanti ne avesse lei il giorno della sua morte.

Il caso è diventato coincidenza, il caso o perlomeno l’amministrazione che mi ha fatto rimandare la decisione di un anno. Nell’arbitrarietà del tempo, una data fa improvvisamente risaltare delle coincidenze che la rendono necessaria, che le danno un senso. Succederà oggi, non ieri o domani. La logica dei numeri talvolta ci sottrae all’arbitrarietà e all’angoscia, ci permette di prendere decisioni sulla morte nella vita. Se le formule matematiche decifrano l’universo, le coincidenze dei numeri possono consolare l’umanità dell’assurdità della propria condizione.

Quindi oggi 13 luglio, sono andata al cimitero. Un impiegato mi aspettava con i suoi attrezzi e le sue carriole. Stupito di vedermi sola. Mi ha chiesto se avessi preparato un cerimoniale, previsto un particolare svolgimento. No, faccia come fa di solito, voglio solo essere presente, veder scomparire questa tomba incubo della mia infanzia, questa tomba arida di sentimenti, questa tomba marchio del padre. Ho guardato Laurent spezzare, smontare, scavare per liberare la lapide, caricare le carriole sotto un sole impietoso. Perché lui lo aveva previsto il cerimoniale, teneva a svolgere il suo compito a mani nude, senza ruspa. Alla fine gli è rimasto solo da rastrellare la ghiaia su cui ho deposto un fiore. Per un effimero momento, questo luogo è diventato mio, avevo disfatto ciò che aveva fatto mio padre, un po’ di ghiaia, un fiore, questa frugalità mi è sembrata femminile, finalmente mi ci potevo riconoscere. Da domani, il posto tornerà a essere pubblico.

Ginevra, luglio 2015

Traduzione di Daniela Almansi